
Quanto bisogna soffrire per amore?
Come direbbe un bravo cuoco, per amore bisogna soffrire quanto basta. Ecco la mia personalissima ricetta. Troppo spesso vedo persone intorno a me che in nome di un sentimento non bene indentificato soffrono giorni, mesi, anni, a volte tutta la vita anche cambiando partner. E spesso mi sento dire che se non soffri non ami veramente. Per questo mi sono posta delle domande sulla sofferenza in generale. Sul fatto che in Italia, come insegnante, in ogni classe dove vado a fare lezione, c’è il piccolo Jesu appeso al muro che ha sofferto e soffre ancora per tutti noi. Che questa è la cultura in cui cresciamo e che da non battezzata e non credente faccio fatica a capire cosa è veramente la sofferenza. Per me, la sofferenza vera è quando l’essere umano perde la possibilità di scegliere per se stesso come nel caso di abusi sessuali o di schiavitù, prostituzione non scelta ecc. In ogni situazione in cui un essere umano viene costretto a subire delle violenze a suo malgrado.
Quindi, per come sono stata educata non riesco a concepire una sofferena dovuta al sentimento dell’amore e faccio molta fatica a capire persone che addirittura più soffrono, più sentono di amare e più amano, più soffrono. E visto che ho lo spirito di una brava scienziata e tendenzialmente non mi piace non capire, mi sono chiesta cosa ne pensa della sofferenza Davide Facheris, esperto di comunicazione empatica. E ho trovato delle risposte molto interessanti…
Che dice Marshall Rosenberg sulla sofferenza? Non lo so di preciso. La mia comprensione è questa, ve la dico naked, cruda: i sentimenti e le sensazioni corporee (i segnali del corpo) sono degli indicatori di bisogni soddisfatti o insoddisfatti. Quindi la sofferenza mi indica qualcosa, qualcosa che sto vivendo, probabilmente uno o più bisogni che non sono soddisfatti.
Uno dei valori che trovo nella sofferenza è che è preziosa in quanto mi sta indicando qualcosa di importante. Se sono sott’acqua e “soffoco”, provo asfissia, soffro di questo… È un indicatore chiaro e prezioso del fatto che ho urgente bisogno di ossigeno.
La sofferenza quindi per me acquista già un valore se la ascolto e la uso per capire ciò che vuole dirmi. Quando arrivo ad individuare il bisogno la sofferenza comincia a trasformarsi, e se mi connetto al bisogno può anche svanire, sciogliersi, diventare altro.
Alcune sofferenze sono state utili nella mia vita. A volte, ad esempio, andavo scalzo per scelta, d’inverno, per provare connessione con la natura: soffrivo il freddo e contemporaneamente godevo della connessione con la mia natura più essenziale e vulnerabile, cosa che in un guscio protetto, con le scarpe da tennis tutto il giorno, a volte sfugge.
A volte ho sofferto di mali lunghi, durati mesi o anni, nausee che se non se ne andavano c’era un motivo, solo che io non lo sapevo, non riuscivo a decifrarle. Ne ho sofferto a lungo, loro erano lì, volevano dirmi qualcosa… È stata una sofferenza bestiale, ho urlato di dolore e di sfinimento, volevo solo che se ne andassero via, e chiunque non mi offrisse empatia per me poteva andarsene al diavolo.
Coltivare la sofferenza in sé e per sé, ampliarla il più possibile, può essere una cosa utile se sentiamo che essa ha qualcosa da dirci, se abbiamo chiaro che li dentro c’è qualche messaggio prezioso per noi; non penso sia una cosa buona e giusta in assoluto. Rinunciare al proprio egoismo ed egocentrismo può già essere un processo impegnativo e che dunque costa sofferenza, ma che al contempo può arricchirci molto di più di ciò che lasciamo (come dice il Vangelo, “occorre passare per la porta stretta”).
Questo per me funziona se lo scegli, altrimenti non funziona. In sostanza in questa vita io concordo che a volte per arrivare ad una gioia piena, ad un traguardo mistico, serve passare per la porta stretta, per arrivare in cima con un certo senso, serve fare a piedi la montagna… E soffrire quindi, a volte — non sempre, non sempre e non per forza! Non sempre e non per forza la porta stretta o la montagna equivale a soffrire, può essere anche una grande gioia.
Se vedo che lì dentro c’è la gioia piena o comunque una maggiore soddisfazione dei miei bisogni, è una gioia passare per la porta stretta.
Marshall: “Vorrei che le persone vedessero che il loro benessere e quello altrui sono una cosa sola”. E se vedi questo, rinunciare al tuo ego non è sofferenza, è un gioia.
Penso anche che la cosa fantastica e che muove tutta la profondità della nostra esistenza è che siamo dotati di piena e totale libertà: se non vuoi farlo, puoi non farlo. Se non vuoi soffrire puoi non soffrire alcune cose, vivi ciò che vivi, vivi altro, cosa di preciso non lo so, forse vivi sofferenze maggiori, forse ti compri una, dieci ville o barche e godi tantissimo certe cose, cosa altro non godi non lo so, perché non è la mia strada.
In sostanza, la distinzione che mi sento di fare in conclusione, seguendo ciò che mi pare essere vicino alla risposta che darebbe Marshall, è che, appunto per quella piena libertà di cui dicevo poche righe fa, viviamo pienamente quando ciò che facciamo è una SCELTA LIBERA: scelgo di soffrire per questo motivo, scelgo di ascoltare la mia sofferenza, scelgo di rinunciare all’ultimo pezzo di pizza perché voglio farti un regalo dal cuore e mi costa sofferenza e contemporaneamente mentre vedo la bellezza di farti questo dono dal cuore la mia sofferenza svanisce.
Non viviamo pienamente quando ciò che facciamo è un DOVERE (e quindi nasconde giudizi, colpe, ecc.): “devi soffrire perché è utile”, “soffrire è la chiave della redenzione e della felicità, non c’è alternativa“, “se non passi attraverso la sofferenza stai sbagliando strada”, “se non sei disposta a soffrire sei un’egoista”.
di Jade Jossen e Davide Facheris
La comunicazione non violenta (chiamata anche comunicazione empatica o comunicazione collaborativa) è un processo di comunicazione sviluppato da Marshall Rosenberg nel 1960. La CNV si basa sull’idea che tutti gli esseri umani hanno la capacità di compassione e ricorrono alla violenza o a un comportamento che danneggia gli altri quando non riconoscono le strategie più efficaci per soddisfare i propri bisogni. Le abitudini di pensare e di parlare che portano all’uso della violenza (psicologica e fisica) sono apprese attraverso la cultura.
www.davidefacheris.com
www.comunicazioneempatica.com
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