
Quale donna vorrebbe uscire con un femminista?
“Cristo, sei un femminista del cazzo”. Queste parole taglienti, sebbene in parte giocose, sono state rivolte da un amante frustrato a un altro… Nello specifico, dalla mia ragazza a me. Ritenendo che dovessimo dividerci le fatiche della vita, mi sono rifiutato di espletare uno dei miei doveri di uomo (portare le borse, fornire supporto emotivo che avevo trascurato, ecc.). Il problema, spesso, è che non riesco a uscire da questa tana del Bianconiglio dell’evoluzione e della biologia, in cui il punto di vista sui ruoli di genere assume una forza plasmante piuttosto prevedibile ma nondimeno illuminante. Il risultato è quello che chiunque altro chiamerebbe “insensibilità”. Figuriamoci.
Mia madre mi ha educato a spostare le sedie per le donne, a trasportare cose per le donne, ad aprire le porte per le donne (e, ad essere sinceri, per l’anziano occasionale a patto sia sufficientemente decrepito) e non ha esitato un istante a darmi del “dongiovanni”, qualche anno fa. Le donne devono essere adeguatamente corteggiate (un presunto esercizio di rispetto per l’altra persona: tu, uomo, devi usare le tue risorse per soddisfare i suoi bisogni. Ne parliamo tra un attimo).
Sua madre, vissuta fino alla trionfale età di 102 anni, era l’ultima matriarca in una famiglia di sei uomini e due donne. Cito queste due donne non solo perché sono state (e sono) due grandi forze nella mia vita, ma anche perché le loro due generazioni, dal 1910 ad oggi, hanno vissuto un cambiamento culturale profondo (e ancora in corso) verso l’uguaglianza di genere. Hanno goduto dei frutti della cavalleria: quel “sentirsi accudite” almeno con gesti piccoli. ma sistematici. Hanno anche lottato per la parità dei salari e per i lavori più qualificati con l’atteggiamento di chi non si fa mettere i piedi in testa.
Questa, secondo me, è una sfortunata contraddizione. È difficile, o almeno dovrebbe esserlo, prendersi sul serio se si continua a godere dei frutti della galanteria mentre si lotta per l’uguaglianza totale.
Provate a immaginare come dovrebbe essere l’uguaglianza tra due giovani professionisti eterosessuali sotto i trent’anni. Si conoscono a una festa, lui non le chiede il numero di telefono ma aspetta che sia lei a farlo, o almeno che gli chieda l’amicizia su Facebook e poi gli mandi un messaggio invitandolo ad uscire (avvenimento improbabile n. 1). Escono a cena e a bere, tutto va bene, ma alla fine arriva il conto. Dopo averlo letto, invece di occuparsene, lui butta un’occhiata attraverso il tavolo forse aspettando che lei dica “ci penso io”; oppure glielo porge insieme alla sua carta di credito, pronto a dividere la spesa (2). Vanno a prendere i cappotti, arrivano contemporaneamente all’appendiabiti e, nonostante entrambi siano a portata di mano, lui prende solo il suo cappotto e non quello di lei (3), e/o le lascia da portare il sacchetto del cibo avanzato (4). Uscendo, lascia che sia lei ad andare avanti e a tenere la porta aperta per lui (5).
Sicuramente starete pensando: “Hai impostato una dicotomia falsa. Nelle migliori relazioni si lavora insieme: uno prende i cappotti, l’altro tiene aperta la porta. Uno paga le bevande, l’altro il cibo”. Sono d’accordo. Ma non succede praticamente mai al primo appuntamento. Anche le donne più consapevoli dei ruoli di genere con cui sono uscito si aspettavano un livello base di cavalleria.
Pensate a quanti altri appuntamenti con la stessa donna potrà avere il fesso del nostro esempio. Nonostante un’ottima prima impressione, non le ha chiesto il numero di telefono. Difficilmente lei lo andrà a cercare, anche se fosse interessata. Non si offre di pagare il conto (niente di inaccettabile per qualunque donna che non sia segretamente sessista nei confronti del suo stesso genere, ma comunque “cattiva forma” da parte di lui). Non le prende il cappotto e non si offre di portare il sacchetto del cibo avanzato (chiaramente non è un problema di forza fisica, ma un “gesto carino” la cui mancanza farebbe sembrare lui, ma non lei, un imbecille socialmente disadattato). Infine, lascia che sia lei a uscire per prima e a tenergli la porta aperta (di nuovo non un problema in sé, ma non aprire la porta è un punto in meno per lui, non per lei).
Per essere chiari, questa non è una discussione del tipo “la vita è così dura per noi uomini!”. È più tipo “tra questi vincoli è dura districarsi, mostrarsi insieme galanti e non sessisti”. In fondo, questo paradosso è frutto di altre aspettative sociali, figlie dell’evoluzione ma antiquate, che sopravvivono ancora oggi, in parte per un bisogno di fare buona impressione e/o essere favorevolmente impressionati che stenta a morire.
Il punto è che, molto semplicemente, questi vincoli che mi ostino a definire “ipocriti” nascono da uno sforzo congiunto: gli uomini hanno contribuito tanto quanto le donne alla situazione attuale. Abbiamo preferito concentrarci solo sulla gestione delle nostre risorse, piuttosto che complicare tutto con l’empatia e dover fare i conti con la complessità delle interazioni umane.
Indubbiamente ci sarà chi le chiamerà solo “semplici cortesie” nei confronti delle donne, riflettendo gli ideali di una società rispettosa. Forse anche tu, che stai leggendo, sei una donna che ha goduto di simili cortesi attenzioni. Però dammi retta, per favore, se non aiuti equamente il tuo partner stai solo supportando la diffusione di questi ruoli, e avrai grosse difficoltà poi a sostenere la causa dell'”uguaglianza di genere”. Secondo me, lottare per l’uguaglianza mentre si gode dei benefici di ruoli di genere radicati è piuttosto ipocrita.
La prossima barriera al raggiungimento dell’uguaglianza tra i generi potrebbero benissimo essere queste sottigliezze nelle interazioni. Il sessismo manifesto, così come il razzismo, è un problema ovvio contro il quale è facile (ma non per questo meno legittimo) puntare il dito. Il fine conoscitore del sessismo, come molti di voi potrebbero essere, noterà questi gesti standardizzati da parte degli uomini e li ricambierà appena possibile per neutralizzarne l’unidirezionalità, o semplicemente li respingerà. “Dividiamo il conto”, o “non serve che mi apra la portiera, non sono nata con le braccia atrofizzate”, o “bene, [maschio], passo a prenderti io alle nove”.
Ripeto, non intendo dire con questo che bisogna uccidere la galanteria. Sto sostenendo che debba essere estesa a tutti, e che bisogna riconoscere che questi sottili giochi di genere hanno una parte di responsabilità nell’ ostacolare un rapido cammino verso una vera uguaglianza tra i generi.
Su questo sono un ipocrita, ma lo dirò lo stesso: aspettarsi che gli uomini facciano la corte e poi essere frustrate per l’ineguaglianza tra i generi è un po’ tirarsi la zappa sui piedi, secondo me.
L’uguaglianza di genere è davvero possibile? Gli uomini resteranno teste di cazzo per tutta la vita? Date le differenze genetiche ed ormonali tra i due sessi, è ragionevole aspettarsi ruoli e comportamenti perfettamente identici ed equi tra i due? È davvero questo il modello migliore per limitare al minimo le sofferenze delle persone?
A queste domande non ho risposte, ma so che se riusciremo ad abbattere le barriere all’uguaglianza reciproca, saremo più vicini alla meta.
Di Will Jaffee
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Will Jaffee studia medicina presso la Nova Southeastern University in Florida ed è autore del blog Doctor Coffee’s Brain Banter, in cui è stata pubblicata una prima versione di questo articolo, ripreso in seguito dal magazine Role Reboot.
La traduzione è di Elena Gallina.
L’immagine in home page è tratta dalla campagna online Who Needs Feminism? (Chi ha bisogno del femminismo?).