
Risposta a Galimberti
Gentile signor Galimberti,
più di una volta i suoi pezzi su D di Repubblica mi sono stati segnalati da parenti e amici, persone di buona educazione e cultura che vedono in lei un punto di riferimento intellettuale. Anche in questo caso è stato un professore di filosofia, di cui ho davvero la massima stima, a farmi leggere il suo intervento dell’11 ottobre sul poliamore. O meglio: su quello che lei erroneamente intende per poliamore.
Personalmente non amo le definizioni, le ritengo una sorta di “male necessario”, ma rimane il fatto che le parole hanno un senso e persino una storia: il termine poliamore non è certo stato coniato da Attali e ha un significato ben preciso, facilmente reperibile su internet. Ho il dubbio, o meglio il forte sospetto, che lei non abbia nemmeno fatto lo sforzo di leggerne la definizione, chessò, su Wikipedia.
Io invece, giusto per non parlare a sproposito, ho recuperato l’intervista di Leonetta Bentivoglio ad Attali per Repubblica e mi pare del tutto evidente che l’accostamento tra possedere più cellulari e avere più storie d’amore sia riconducibile al suo approccio da economista e non al consumismo (innegabile) della nostra società.
Al di là di questo, sin dalla prima riga del suo intervento si evita qualunque distinzione tra diversi tipi di non-monogamia, ad esempio tra poliamore e semplice libertinaggio. Lei cita più volte il disimpegno emotivo, poi ancora la liberazione dello spessore etico, la perdita di responsabilità e di se stessi: queste parole feriscono profondamente chi, come me, da anni ha fatto una scelta personale proprio nel nome della responsabilità e dell’impegno etico a rispettare me stesso e gli altri.
Da circa otto anni (molto prima di imbattermi nei concetti di poliamore e anarchia relazionale) ho maturato una coscienza non-monogamica e da oltre quattro vivo una relazione amorosa che è ricca sì di piacere, spirituale e carnale, ma anche di impegno, di responsabilità, talvolta di difficoltà e anche di regole e di doveri, sebbene non quello di astenersi da altre relazioni, che infatti entrambi abbiamo, alcune estemporanee, altre più durature.
Nella mia vita sono in contatto con poche centinaia di persone (con ognuna di esse ho una relazione, in fondo) e sono profondamente consapevole che i miei discorsi e i miei comportamenti hanno un impatto, seppure piccolo, su di loro. Da questo deriva un senso di responsabilità che non prendo affatto alla leggera, come forse avrà già intuito.
Lei ha decine di migliaia di lettori che, come dicevo all’inizio, la seguono attentamente e si fidano di lei e di ciò che scrive: la prego di rendersi conto che un approccio così superficiale a una realtà magari piccola, ma complessa come le non-monogamie, alimenta l’ignoranza e i pregiudizi riguardo a un tema importante, per cui molte persone soffrono quotidianamente, sentendosi derise e a volte escluse per il loro non essere in linea a quello che è ancora (e forse sarà sempre, con buona pace delle previsioni di Attali) un paradigma dominante della nostra società.
Le scrivo nella speranza di indurla ad approfondire questi argomenti e a trattarli con più attenzione in futuro, nel pieno rispetto delle opinioni personali di tutti, rispetto che non ho avvertito nel suo articolo, conclusosi addirittura con una divagazione sull’abuso di psicofarmaci che nulla ha a che vedere con il poliamore e le altre forme di non-monogamia.
Spero in una sua gentile risposta.
Nel caso avesse intenzione di pubblicare le mie parole o parte di esse, la prego di contattarmi con anticipo.
Sinceramente,
Tomaso Vimercati
Articolo originale comparso su Repubblica